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LOULOU Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 aprile 1982
 
di Maurice Pialat, con Gérard Depardieu, Isabelle Huppert, Guy Marchand (Francia, 1980)
 
Gli imponderabili di una distribuzione allo sfascio portano solo ora sui nostri schermi questo film dell'autore di NOUS NE VIEILLIRONS PAS ENSEMBLE e di LA GEULE OUVERTE apparso a Cannes due anni fa. E si

tratta di uno dei migliori film francesi degli ultimi anni, dell'opera forse più personale di Maurice Pialat.

C'è gente che al cinema racconta delle storie, come Hitchcock o Truffaut. Non è il caso di Pialat: di LOULOU si può appena dire che dipinge l'incontro fra una giovane borghese e un duro, dal cuore tenero, di periferia. Ma è tutto.

Si è detto che Pialat fa dei realismo. Ma detto così (ed il regista francese, noto per l'intransigenza, un filo compiaciuta, con la quale tratta se stesso e la propria opera, è il primo a farlo notare), sembra una riserva. Fa del realismo, perché non sa fare altro. In questo senso Pialat non fa del realismo: anche se gira in modo meno libero di qualche anno fa, anche se le sue riprese si basano meno sul piano-sequenza, se l'autore spezza maggiormente il montaggio dei suoi film, forse alla ricerca di una forma più compiuta, il suo rimane un

approccio estremamente libero ai personaggi. Senza preconcetti teorici, con un'intimità palpabile, fisica, che costituisce la prima ragione del fascino di Loulou.

Lo sguardo del cineasta è costantemente a ridosso dei protagonisti: le inquadrature sono strette, la cinepresa, usata spesso a spalla, cerca un contatto quasi epidermico. Eppure il film si costruisce, ammesso di usare questo termine, su due momenti corali, bellissimi nei quali i protagonisti s incontrano, si uniscono e si dividono, il ballo del sabato sera, e il pranzo all'aperto finale, quando Isabelle Huppert deciderà di abortire.

L'intimismo di Pialat, ai quale lo conduce quel suo modo di filmare, non si esaurisce sui protagonisti. Ma tende, al contrario, ad aprirsi costantemente sul mondo che li circonda, sui personaggi che gravitano attorno, sull'ambiente che trasuda i propri umori sugli individui. Si è detto che Pialat è uno dei pochi cineasti francesi ad occuparsi di un mondo emarginato, di quei "paumés", di quell'anonimato civile e ancor più spirituale che popola il mondo che confina con quello di coloro che "contano". Ma dal suo cinema è assente qualsiasi ritratto di maniera, qualsiasi annotazione sociologica, qualsiasi ricostruzione pensata. La verità esterna filtra, quasi involontariamente, nel comportamento dei personaggi. Tre le pieghe del loro modo di amare, di passare dalla calma alla violenza, di interrompere con una risata un istante di dramma, di soffrire e godere, imprecare o sussurrare. Tanti piccoli momenti privilegiati, mai esplicativi ai fini del racconto, che finiscono col dettare il significato del pensiero del regista.

Pialat dice che il suo film è nato troppo in fretta, che alcune psicologie (il compagno abbandonato, di cui Marchand sottolinea infatti un po' eccessivamente l'amore per le esposizioni d'arte e i concerti) sono forzate, che Depardieu si lascia andare con troppa disinvoltura nelle vesti di un personaggio nel quale egli ritrova fin troppo se stesso. È in parte vero: ma Depardieu è anche incredibilmente inserito nella sfrontata fragilità di questo blouson noir che aiuta la mamma a far la spesa al mercato. E vive fino all'ultimo respiro in intimità con la cinepresa. E così la Huppert, al tempo stesso istintiva e professionale, colta di sfuggita tra il broncio e la gioia della banalità quotidiana, dimentica finalmente della merlettaia di sempre.

Loulou ha la fretta ma anche la verità dell'istantanea: i dialoghi non spiegano nulla, ma sono anche quanto di meno letterario si è fatto in un cinema d'impronta sempre letteraria come quello francese. L'istante di Pialat non nasce comunque dal caso, e siamo ben distanti dal cinema verità. Non a torto il regista confessa volentieri il suo amore per lo "studio": la scelta degli ambienti è perfetta, e così le luci e le scenografie.

C'è un nome, o piuttosto un mondo, al quale le immagini di LOULOU continuamente si riferiscono, ed è quello di Jean Renoir. Un riferimento impegnativo, ma anche eloquente.


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